Covid-19 e autocertificazione: dichiarare il falso non costituisce reato

autodichiarazione: DICHIARARE IL FALSO NON COSTITUISCE REATO

L’autocertificazione con la quale si attestano le ragioni del proprio spostamento al di fuori dalla propria abitazione o dal proprio Comune – in caso di indicazioni mendaci – è sanzionata ai sensi degli artt. 46 e 47 D.P.R. 445/2000? Per il Giudice del Tribunale milanese la risposta è negativa.

I fatti: l’imputato era stato ritenuto responsabile del delitto previsto e punito dall’art. 483 c.p. in relazione all’art. 46 del D.P..R 445/2000 in quanto, secondo il capo di imputazione, lo stesso avrebbe falsamente dichiarato che, nel momento in cui è stato fermato dagli agenti di Polfer (il 24.03.2020) stava tornando a casa dal lavoro.

Ad avviso del GIP, però, anche nel caso in cui il soggetto avesse falsamente dichiarato che stava tornando dal lavoro, non risulterebbero integrati i presupposti della fattispecie prevista e punita dall’art. 483 del Codice Penale, ciò in quanto il richiamato articolo, punisce il privato che falsamente attesti, in un atto pubblico, fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità. Il Giudice in sentenza afferma che, interpretando letteralmente la norma. si deve escludere che la stessa preveda un generale obbligo di veridicità nelle attestazioni che il privato rende al pubblico ufficiale.

Il Giudice si è soffermato sulla specifica rilevanza giuridica di quei “fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità”; la giurisprudenza, pacificamente, sostiene che le false dichiarazioni del privato integrano la fattispecie delittuosa prevista dall’art. 483 (falso in atto pubblico) quando le stesse siano destinate a provare la verità dei fatti cui si riferiscono e quando debbano essere trasferite in atto pubblico, ciò accade quando l’atto pubblico contenente la dichiarazione del privato sia destinato a provare i fatti ivi attestati, ossia quando la norma giuridica espressamente preveda un obbligo per il privato di dichiarare il vero per gli specifici effetti dell’atto o del documento nel quale è stata inserita la dichiarazione resa al pubblico ufficiale.

La dichiarazione mendace resa dal privato all’atto di un controllo occasionale effettuato per verificare il rispetto della normativa emergenziale non ha tali caratteristiche: “appare difficile stabilire quale sia l’atto del pubblico ufficiale nel quale la dichiarazione infedele sia destinata a confluire con tutte le necessarie e previste conseguenze di legge. Da un lato, infatti, il controllo successivo sulla veridicità di quanto dichiarato dai privati è solo eventuale e non necessario da parte della pubblica amministrazione: pertanto quanto dichiarato dal singolo all’atto della sottoscrizione dell’autodichiarazione potrebbe di fatto restare privo di qualunque conseguenza giuridica; dall’altro occorrerebbe ipotizzare che l’atto destinato a provare la verità dei fatti auto-dichiarati e certificati dal privato sia il successivo (eventuale) verbale di contestazione di una sanzione amministrativa o l’atto di contestazione di un addebito di natura penale, come l’atto di informativa ai fini delle conoscenza del procedimento e il verbale di identificazione e dichiarazione o elezione di domicilio”.

Per il privato che si trovi sottoposto a controllo nelle situazioni de quo, quindi, non sussiste alcun obbligo giuridico di dire la verità circa i fatti riportati nell’autocertificazione sottoscritta, in quanto nel sistema giuridico non esiste alcuna norma che preveda specifici effetti per un atto/documento come quello in cui la falsa dichiarazione del privato venga inserita dal pubblico ufficiale solo in via eventuale (i controlli sul rispetto della normativa emergenziale, infatti, non vengono effettuati nei confronti di tutti i cittadini, sono occasionali e anche il riscontro di quanto sottoscritto nell’autocertificazione è eventuale, non viene effettuato su tutte le autocertificazione sottoscritte).

Sostenendo diversamente, si incorrerebbe in una violazione non solo del principio del nemo tenetur se detegere, ma altresì del diritto di difesa in quanto qualora il privato dovesse scegliere (legittimamente) di mentire al fine di evitare di incorrere in una sanzione penale o amministrativa, verrebbe comunque assoggettato ad una sanzione penale per aver reso false dichiarazioni.

Già in una precedente pronuncia del Tribunale di Milano (emessa dal Dottor Roberto Crepaldi e depositata nel novembre 2020) si affermava: “è pacifico in giurisprudenza che siano estranei all’ambito di applicazione dell’art. 483 c.p. le dichiarazioni che non riguardino “fatti” di cui può essere attestata la veridicità hi et nunc ma che si rivelino mere manifestazioni di volontà, intenti o propositi”. Proseguiva poi  “sebbene non vi siano dubbi circa il fatto che l’intenzione dichiarata dall’imputato nel modulo di autocertificazione non abbia trovato riscontro nei successivi accertamenti della Polizia Giudiziaria, va tuttavia escluso che tale falsità integri gli estremi del delitto di cui all’imputazione, in quanto l’art. 483 c.p. incrimina esclusivamente il privato che attesti al pubblico ufficiale fatti dei quali l’atto è destinato a provare verità”. A tale conclusione il Giudice milanese arriva attraverso tre criteri interpretativi: quello letterale, quello teleologico e quello sistematico: dal dato testuale “giacché la nozione di fatto non può che essere riferita a qualcosa che è già accaduto ed è perciò, già in quel preciso istante, suscettibile di un accertamento, a differenza dell’intenzione, la cui corrispondenza con la realtà è verificabile solo ex post”.  Seguendo l’interpretazione teleologica “giacché la norma è finalizzata ad incriminare la dichiarazione falsa del privato al p.u. in relazione alla sua attitudine probatoria, attitudine che evidentemente non può essere riferita ad un evento non ancora accaduto”. Nell’ottica sistematica “la stessa normativa in tema di autocertificazioni, all’interno della quale i fatti sono indicati, quale oggetto di possibile dichiarazione probante del privato, insieme agli stati e alle qualità personali, vale a dire a caratteristiche del soggetto già presenti al momento della dichiarazione”.

Sempre in sentenza, si legge che “ne discende che mentre l’affermazione nel modulo di autocertificazione da parte del privato di una situazione passata (si pensi dalla dichiarazione di essersi recato in ospedale ovvero al supermercato) potrà integrare gli estremi del delitto de qua, la semplice intenzione di recarsi in un determinato luogo o di svolgere una certò attività non può essere ricompresa nell’ambito applicativo della norma incriminatrice, non rientrando nel novero dei fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità”.

Proprio muovendo da tale ultima affermazione si può notare come la sentenza recentemente emessa abbia ulteriormente ampliato lo spazio di difesa tramite l’applicazione dei principi fondamentali del processo: al cittadino non si può imporre l’alternativa tra dire la verità e, in tal modo, “confessare” un illecito (penale o amministrativo) e mentire commettendo il reato di false attestazioni. Nessuno, insomma, può essere costretto a confessare un illecito.

La decisione commentata si ricollega a quella emessa dal G.I.P. di Reggio Emilia che con sentenza 54 del 27.01.2021, attraverso un’interpretazione costituzionalmente conforme ha assolto una donna e il suo compagno che nell’autocertificazione dichiaravano che si stavano recando ad una visita medica, circostanza che – a seguito di controlli – non ha trovato riscontro.

Ad avviso del Gip reggiano “un divieto generale e assoluto di spostamento al di fuori della propria abitazione con limitate e specifiche eccezioni, [imposto dal DPCM] configura un vero e proprio obbligo di permanenza domiciliare”; Il Giudice, in sentenza, infatti pone l’attenzione proprio su questo aspetto, affermando che “è indiscusso che l’obbligo di permanenza domiciliare costituisca una misura restrittiva della libertà personale, che ex art. 13 Cost. può essere adottata solo su atto motivato dall’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge”.

poiché trattarsi di un DPCM, cioè di un atto amministrativo, il giudice ordinario non deve rimettere la questione di legittimità costituzionale alla Corte Costituzionale, ma deve procedere, direttamente, alla disapplicazione dell’atto amministrativo illegittimo”.  Per queste ragioni “deve affermarsi la illegittimità del DPCM indicato per violazione dell’articolo 13 della Costituzione con conseguente dovere del Giudice ordinario di disapplicare tale DPCM”.

Due percorsi argomentativi apparentemente differenti (quelli seguiti dal GIP del Tribunale di Milano e da quello del Tribunale di Reggio Emilia) ma che trovano il proprio fondamento nella Carta Costituzionale.

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